Catalogabile come appropriazione indebita il percepire per anni la pensione della suocera morta da tempo
Da escludere, invece, secondo i giudici, l’ipotesi relativa alla indebita percezione di erogazioni pubbliche

Percepisce per vent’anni la pensione della suocera morta: condotta catalogabile come appropriazione indebita. Questa la posizione assunta dai giudici (sentenza numero 10935 del 19 marzo 2025 della Cassazione), i quali, sancendo la condanna definitiva di un uomo, hanno escluso l’ipotesi relativa alla indebita percezione di erogazioni pubbliche. Ciò perché, a fronte del quadro normativo sugli obblighi di comunicazione in caso di decesso di un soggetto, non può ritenersi incombente sui congiunti o, comunque, sulle persone informate del decesso (e, quindi, su colui che è delegato alla riscossione della pensione), l’obbligo di comunicazione di decesso all’INPS.
A dare origine alla querelle giudiziaria è una vicenda durata ben vent’anni. In quell’arco temporale, difatti, un uomo, delegato alla riscossione della pensione INPS spettante alla suocera, ha conseguito indebitamente, cioè dopo la morte – avvenuta nel 1997 – della donna, ben duecentoquarantasette ratei pensionistici, assegnati dall’istituto previdenziale alla pensionata, per una cifra complessiva di pochissimo inferiore ai 100mila euro.
Per i giudici di merito non ci sono dubbi sulla responsabilità penale dell’uomo, ritenuto colpevole del reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche.
Per i magistrati di Cassazione, però, va corretta la qualificazione giuridica dei fatti. Detto in parole povere, all’uomo sotto processo va contestato il reato di appropriazione indebita.
Come legittimare questo cambio di rotta? In premessa, viene sottolineato che il reato indebita percezione di erogazioni pubbliche, posto a tutela degli interessi finanziari della pubblica amministrazione e, dunque, della corretta allocazione delle risorse pubbliche, si realizza con il conseguimento indebito di erogazioni pubbliche ottenute con particolari modalità dell’azione, indicata dalla norma come utilizzo o presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere od omissioni di informazioni dovute. Di conseguenza, è necessario che la percezione delle erogazioni pubbliche sia comunque avvenuta dietro la presentazione di documenti falsi (condotta attiva) ovvero, con riferimento alla vicenda in esame, a cagione della omessa comunicazione di informazioni dovute (condotta omissiva), come quella relativa al decesso della donna che aveva diritto alla pensione. E in questa ottica l’inerzia o il silenzio possono integrare l’elemento oggettivo del reato, a condizione che corrispondano all’omesso adempimento di un obbligo di comunicazione e che ad essi si correli l’erogazione non dovuta – cioè, sine titulo – da parte dello Stato o dell’ente pubblico.
Quanto, poi, alla doverosità di tale comunicazione, è necessario rilevare che le informazioni debbono trovare fondamento in una richiesta espressa dell’ente erogatore o, comunque, risultare imposte dal principio di buonafede precontrattuale, come da Codice Civile.
Così, l’ambito di applicabilità del reato di indebita percezione di erogazioni pubbliche si riduce così a situazioni del tutto marginali, come quelle del mero silenzio antidoveroso o di una condotta che non induca effettivamente in errore l’autore della disposizione patrimoniale.
Cosa accade, allora, a fronte di ratei pensionistici riscossi dagli eredi o da soggetti altrimenti delegati dopo che il titolare della relativa spettanza previdenziale è deceduto?
Per rispondere a tale domanda, i magistrati ricordano che la norma prevede l’obbligo di comunicare la morte di una qualunque persona, non oltre le ventiquattro ore dal decesso, all’ufficiale dello stato civile del luogo dove la morte è avvenuta o, nel caso in cui tale luogo si ignori, del luogo dove il cadavere è stato deposto» e tale obbligo «è a carico dei congiunti o della persona convivente con il defunto (o di un loro delegato) o – in mancanza – della persona informata del decesso, ovvero, in caso di morte in ospedale, casa di cura o di riposo, collegio, istituto o qualsiasi altro stabilimento, in capo al direttore o a chi sia stato a ciò delegato. Scatta, poi, l’obbligo per il responsabile dell’Ufficio Anagrafe del Comune di comunicare all’ente di previdenza la morte dell’assicurato. E a seguito delle comunicazioni dei Comuni relative ai decessi, l’INPS, sulla scorta dei dati del casellario delle pensioni, comunica le informazioni ricevute dai Comuni agli enti erogatori di trattamenti pensionistici per gli adempimenti di competenza. E, ancora, la norma sancisce l’obbligo per i medici di invio on line del certificato di accertamento del decesso entro quarantotto ore dall’evento, utilizzando le stesse modalità già in uso per la trasmissione delle certificazioni di malattia.
A fronte di tale quadro normativo sugli obblighi di comunicazione in caso di decesso, non può ritenersi incombente sui congiunti o, comunque, sulle persone informate del decesso (e, quindi, su colui che è delegato alla riscossione della pensione), sanciscono i magistrati di Cassazione, l’obbligo di comunicazione di decesso all’INPS, tenuto conto che siffatto obbligo non è loro imposto in relazione al trattamento pensionistico erogato e spettando a loro unicamente la comunicazione del decesso del congiunto al Comune di appartenenza, dovendo a questa conseguire, da parte degli enti a ciò preposti (Comune e, sulla base del casellario delle pensioni, INPS), l’eventuale ulteriore comunicazione agli altri enti che risultino erogatori di trattamenti pensionistici in favore del defunto.
Tirando le somme, la condotta tenuta dall’uomo sotto processo va catalogata come appropriazione indebita.